I primi cento sono andati, buon compleanno Enrico

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In foto Ennio Chiaretto ed Enrico Vanzini

Oggi taglia il traguardo del secolo di vita Enrico Vanzini, persona unica, che abbiamo il piacere di conoscere personalmente e che ci onora della sua amicizia.

Enrico nasce in provincia di Varese, a Fagnano Olona, a 20 giorni di distanza dalla Marcia su Roma.
La prima delle sue tre vite inizia con una carriera di calciatore dalle buonissime speranze: aiutante portiere senza paura.  A 18 anni viene convocato dalla prima squadra della Pro Patria di Busto Arsizio e, se non conoscete la grande Pro Patria di allora, certo avete qualche problema! Ai suoi allenamenti, pensate, assisteva e gli dava buoni consigli (“era un pezzo di marcantonio, alto e buono, mi voleva bene”, dice Enrico), nientemeno che Giampiero Combi, leggenda degli estremi difensori e mitico capitano dell’Italia vincitrice della coppa del mondo del 1934 e che al tempo, dopo il ritiro dalle gare, faceva il talent scout per la Juventus.
Il nostro Enrico non fa in tempo a fare nemmeno una parata in serie A. Il ragazzo viene spedito, dopo lo scoppio della sciagurata guerra di Mussolini, nella ancor più disgraziata conquista della Grecia. Ad Atene comincia a rendersi conto di come operano i nazisti e dopo l’otto settembre del 1943 i tedeschi lo caricano in treno e lo spediscono a Buchenwald e qui, per miracolo, scampa ad una condanna a morte quando è già in riga davanti al plotone di esecuzione.
Lo mandano stavolta a Dachau, un campo di sterminio dove, come è noto, le speranze di cavarsela sono ridotte al lumicino, ma è quella flebile fiammella che lo tiene in vita là dentro: il pensiero fisso di ritornare un giorno e poter riabbracciare la mamma e la sua famiglia. Ma ciò che vede in quella fabbrica di morte se lo porterà appresso per tutta la vita.
Purtroppo gli aguzzini gli assegnano proprio il compito di  “operaio” alla catena di montaggio dello sterminio, della Shoah: provate a dirgli che il massacro degli ebrei nelle camere a gas non è mai esistito, come vorrebbe qualche revisionista moderno!
Lui le vede quelle famigliole, quei vecchi dal passo incerto, quei bambini soli e spaesati o aggrappati ad un adulto entrare nelle “docce” per lavarsi dopo un viaggio inenarrabile nei vagoni piombati e finire così asfissiati dal gas.
Gli dicono: tu da oggi dovrai raccogliere quei morti e portarli ai forni crematori, che di loro non deve rimanere traccia.
Solo a scriverlo, credeteci, ci tremano le dita sulla tastiera del computer.
Enrico fa parte del “Sonderkommando” così i nazisti chiamano il personale addetto a quel tipo di sconvolgente mansione.
Arrivano gli americani liberatori. Di Enrico rimane uno scheletro che cammina ma ne esce vivo, vivo da un luogo che nemmeno la penna di Dante sarebbe stata capace di descrivere. Torna a casa così, tutto pelle e ossa, che l’adorata mamma non riesce neanche a riconoscere.

Poi, pian piano, un po’ alla volta comincia la seconda vita, il lavoro, l’autista (“era un lavoro che costava fatica, i pullman e i camion erano duri da guidare ed era facile anche perdersi in giro per le strade di quell’Italia”, ci confidò una volta). Mette su casa, come si dice, la moglie è di una famiglia originaria di Maserà, Romilda Chiaretto.
Passano gli anni, alla fine Enrico, che fino ad allora non aveva mai parlato volentieri della sua esperienza, decide che è venuto il momento di iniziare la terza delle sue vite: girare l’Italia, le scuole, i teatri, i municipi per raccontare. Va dappertutto, da nord a sud e così, con straordinaria lucidità e vividezza racconta, racconta tutto: spiega che cosa è davvero l’inferno, perché lui Satana lo ha visto in faccia: è l’odio cieco e lo ha toccato con mano: è il giovane nazista che spara in faccia alla vecchia (tedesca) che mossa a pietà per quel povero prigionieri italiano aveva osato dargli un pezzo di pane di nascosto.
Quando racconta, Enrico non usa parole ricercate o iperboli e proprio per questo, tra la gente che ascolta in silenzio, accanto a lui allo scranno delle autorità, o tra il pubblico, i volti rigati dalle lacrime e gli occhi lucidi che cercano affannosamente un fazzoletto non si contano: anche per noi è stato così.

Allora forza Enrico! Non fermarti più, continua il tuo viaggio, che ti importa dell’età: fallo per i ragazzi, per quelli che non c’erano, per quelli che si rifiutano di ammettere e di capire. Finchè ci sei tu c’è ancora la speranza che le persone si ricordino il significato vero di “essere umano”.

AUGURI E SEMPRE IN GAMBA!!

Ennio Chiaretto
Tutta Casalserugo e dintorni