Nella foto Giorgio Perlasca al Quirinale con Francesco Cossiga, l’allora Presidente della Repubblica. Roma, giugno 1990 fondazione Perlasca
Come tutti noi sappiamo, il maseratese più famoso, Giorgio Perlasca, salvò dall’olocausto migliaia di ebrei in quel di Budapest, tra il 1944-45 fingendosi diplomatico spagnolo.
Ugualmente nota è la circostanza secondo la quale sul finire degli anni ottanta, un gruppo di ungheresi, sentendo non si sa come il nome Perlasca, si misero alla ricerca di questo presunto dignitario spagnolo, fino a giungere, nel 1988 a scoprire che in realtà Giorgio "Jorge" Perlasca era italiano e viveva a Padova.
Da qua in poi fu tutto un susseguirsi di riconoscimenti ai più alti livelli, iniziati prima con l’intervista televisiva a Giovanni Minoli su “Mixer” (1990) continuando poi con il bellissimo libro di Enrico Deaglio “La banalità del bene” del 1991, mentre si moltiplicavano inviti nelle scuole di ogni parte d'Italia e all'estero.
Se si va a scavare un po’ più a fondo si scopre però che Giorgio Perlasca tentò molte volte dopo la guerra di raccontare la sua storia, addirittura ai più alti livelli: persino con De Gasperi.
Ma non successe nulla, nessuno sembrava credergli.
Ricorda lo stesso Perlasca, quando Deaglio gli chiede lumi su questa faccenda:
“ E’ strano che tutto questo mi succeda proprio adesso…E’ strano perché io, quando tornai, provai a raccontarla, ma sembrava che nessuno mi credesse. (…). A quel tempo, dopo la guerra, vivevo a Trieste e divenni membro del direttivo del “l’Uomo Qualunque” e anche partecipante alla Giunta d’Intesa per Trieste dei partiti politici italiani. (…) Ho raccontato a diverse persone quello che avevo fatto. Ne ho parlato a De Gasperi, a Pella, al presidente dei Liberali triestini Forti. Avevo scritto un diario e lo consegnai al “Messaggero Veneto”. Ma non se ne fece nulla, tanto che nel 1952 andai a riprendermelo. No, sembrava che nessuno fosse interessato. (…) Così successe che piano piano me ne dimenticai anch’io (…). (1)
E’ pochissimo noto invece che uscirono, all’inizio e alla fine degli anni sessanta, due articoli con dovizia di particolari sulla vicenda di Perlasca a Budapest, segno che non solo quelle notizie giravano ma erano ritenute dagli stessi giornalisti molto attendibili per non dire sicure.
Nell’articolo che presentiamo qui sotto (grazie al Sig. Fusar di “La Vecchia Padova”) si parla dell’impresa di Perlasca e si nominano anche diversi premi e riconoscimenti già tributati all’eroe nostro concittadino. Questo articolo uscì il 12 Giugno 1961 sul “Carlino” a firma di Giuseppe Cerato, ma non ebbe seguito, come non ebbe seguito quello ad opera di Furio Colombo su “La Stampa” qualche anno più tardi.
In sostanza perché, chi ha deciso che la vicenda “Perlasca” dovesse essere passata direttamente al dimenticatoio senza quel tributo, doveroso e per fortuna poi avvenuto (però praticamente postumo), a uno degli italiani di cui andare più orgogliosi nel mondo?
In realtà si tratta di un "piccolo" mistero perché già si sa che in questa vicenda sono entrate in gioco le alte sfere politiche (e non solo) del tempo; con tutta evidenza questi fatti e il loro protagonista erano troppo scomodi da spiegare in un periodo di forte contrapposizione politico-ideologica tra la fine degli anni 40 e i 50 del novecento.
Molto semplicemente, si pensò, allora, che una parte consistente del popolo italiano non avrebbe potuto né capire né accettare che un fascista convinto (e che mai rinnegò il suo passato), si fosse reso artefice di un così grande gesto di umanità, così grande da sembrare addirittura quasi impossibile.
Quando uscì l’articolo del Carlino già citato in precedenza, la situazione non era cambiata rispetto all’immediato dopoguerra; anzi: la guerra c’era ancora, anche se si chiamava “guerra fredda”. Comandava allora una Democrazia Cristiana assai bigotta, erano gli anni di Fanfani, e nel PCI Togliatti era ancora bene in sella. Era un periodo nel quale le contrapposte ideologie si sostenevano l’una all’altra; dunque meglio non intaccare queste solide certezze con una storia completamente fuori dal comodo "seminato".
Chissà se un giorno scopriremo chi si prese la briga materiale di insabbiare volutamente, quali alte sfere “bipartisan” (presumibilmente molto alte) e quali celebrati “padri della patria” si adoperarono per mettere la sordina alla grande impresa di umanità che ha visto il nostro Giorgio protagonista; o se magari furono proprio gli intellettuali, gli storici e i giornalisti stessi, tutti profondamente ideologizzati, ad “auto censurarsi”, sempre pronti, come si sa (fatte salve rare eccezioni), a diventare più realisti del re.
I fatti dicono che il povero Perlasca, non a caso, per vedersi riconosciuti i meriti ha dovuto praticamente aspettare Gorbaciov e la caduta del muro di Berlino ma furono riconoscimenti solamente di popolo e di stati esteri, non dello Stato Italiano né tantomeno della Chiesa.
A riprova, nonostante il clamore che la vicenda stava via via suscitando nella pubblica opinione, il silenzio più totale sulla vicenda di Giorgio Perlasca riguardò anche e soprattutto la chiesa cattolica e per tutta la durata della vita di Giorgio: si pensi che ai funerali, il 18 Agosto 1992 non solo lo Stato non mandò nessun alto rappresentante ad assistere alla cerimonia ma addirittura non fu presente nessun esponente del clero, neanche un inviato del Vescovo di Padova e nemmeno un telegramma.
Perché questo comportamento? Come detto in precedenza Giorgio Perlasca non ha mai fatto mistero di essere un cattolico non praticante. Significativa del rapporto con la Chiesa l’intervista al TG1, da sempre portavoce vaticano in RAI, che una volta chiese a Perlasca: “ma lei ha fatto tutto questo perché è cattolico e cristiano?” Il giornalista evidentemente si aspettava una risposta positiva ma Giorgio replicò: “No, l’ho fatto perché sono una persona!” Dice il figlio Franco: “probabilmente mio padre ha pagato caro quella sua sincerità”. (2)
Nemmeno gli esponenti di religione ebraica davano credito a Giorgio. Con lui sono stati sempre freddi e sospettosi, evidentemente avevano il timore che qualcuno lo stesse usando e inoltre, questo fatto di essere stato fascista non pentito, non rese certo il nostro concittadino un punto di riferimento per quella comunità.
Dunque dobbiamo immaginarci un Perlasca, per moltissimi anni dopo la guerra, amareggiato, deluso, evitato da tutti proprio perché aveva fatto ciò che invece più tardi gli sarebbe valso l’onore di mezzo mondo.
Pensiamo solo che il povero Giorgio ha finito, egli stesso, per non voler più parlare della sua storia; a cominciare a credere di essersi addirittura sbagliato, di avere inconsapevolmente aggiunto fatti e vicende in realtà mai accaduti. Poi ci ripensava e tutto gli ritornava alla mente nitido e chiaro.
I maseratensi però possono dire, in quel periodo buio, di essere stati uno dei pochi motivi per i quali il nostro protagonista poteva sorridere ed entusiasmarsi, come riportato in questo brano:
Giugno 1992.
Da una vecchia alfasud rossa scenda un uomo alto e magro, eretto e dinoccolato. Quando cammina, ondeggia lievemente: trascina una gamba da anni a causa di un ictus. I capelli bianchi molto corti gli illuminano il viso. Gli occhi blu, protetti da un paio di occhiali di vecchia foggia, osservano il centro del piccolo paese. La figura dell’anziano signore si staglia netta nella luminosa mattina di fine giugno.
Giorgio Perlasca è venuto a Maserà per rivedere i luoghi della sua infanzia e della sua giovinezza. Non ci torna spesso anche se Padova dista solo una quindicina i chilometri.
La gente lo riconosce per strada; l’edicolante gli si rivolge dicendogli di averlo visto alla televisione: insiste per baciargli entrambe le guance in segno di stima; commosso fino alle lacrime, lo ringrazia per quanto ha fatto nella sua vita.
Simili episodi si verificano ad ogni passo: tutti, nel vedere Perlasca, si commuovono e lo ringraziano per l’onore portato alla piccola Maserà.
Nel palazzo del comune c’è ancora l’ufficio che un tempo era stato del padre di Giorgio, Carlo Perlasca, segretario municipale. La stanza è quasi la stessa, la scrivania e parte del mobilio sono quelli di un tempo. Solo la presenza di un computer attesta il passare degli anni.
Uscendo dall’edificio, Perlasca osserva il tricolore e ricorda che da ragazzo era riuscito ad issare la bandiera italiana alla finestra principale della sede municipale mentre una folla di quasi trecento lavoratori in protesta tentava di strapparla via.
Prima di lasciare Maserà Perlasca si ferma in un piccolo negozio di biciclette: ci lavora un suo vecchio compagno di scuola . I due ottantenni, quasi stupiti di essersi rivisti ancora, ricordano commossi gli amici del passato e le lunghe pedalate di Giorgio, che spesso si recava in bici a Padova assieme al padre.
Poi Perlasca lascia Maserà a bordo dell’Alfasud rossa che corre nella languida campagna veneta. I toni cambiano, scompare l’entusiasmo, aumentano le pause di silenzio e si fa strada la riflessione.” (2)
Dunque oggi siamo a tributare un omaggio ancor più grande a questo Grande Italiano, non solo per ciò che ha fatto a Budapest ma anche perché è stato vittima per troppi anni di un silenzio colpevole: un eroe osteggiato e lasciato solo praticamente da tutti. Sarebbe tutto finito nell'oblio più cupo se il destino non si fosse incaricato di portare, alle ore 15 del 4 settembre 1988 due ungheresi, carichi di regali e prodotti tipici di quella terra, davanti al campanello di casa Perlasca a Padova. E, come si dice “il resto è storia”.
Ricerca delle fonti e testo di Ennio Chiaretto
NOTE:
(1) Enrico Deaglio “La banalità del bene” Feltrinelli 1991
(2) Dalbert Hallenstein, Carlotta Zavattiero “Giorgio Perlasca un italiano scomodo” Chiarelettere, 2010
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 3.0 Italia.