Domenica 4 novembre 2018 ci siamo recati ad Albignasego per assistere alla cerimonia di commemorazione del centenario dell'armistizio di villa Giusti, che poneva fine alla prima guerra mondiale. Abbiamo seguito i discorsi e la consegna delle medaglie con pergamena ai discendenti dei combattenti di Albignasego caduti nella grande guerra.
Riportiamo qui di seguito il discorso tenuto dalla prof. Liviana Gazzetta, dalla quale poi abbiamo ottenuto una breve intervista che proponiamo qui Video intervista
Concittadine, concittadini, siamo qui oggi, nel centenario della fine della Prima guerra mondiale, ad un appuntamento con la storia: con la nostra storia nazionale, ma anche con la storia europea e la storia mondiale, che sentiamo sempre più vicina.
Negli ultimi anni la nostra generazione ha avuto il compito morale e civile di celebrare alcune ricorrenze fondamentali della storia del paese: i 150 dell’unificazione nel 2011; nel 2016 i 150 dell’unione del Veneto all’Italia e il LXX del voto alle donne; quest’anno il LXX della nostra Costituzione repubblicana, oltre appunto al centenario della Prima guerra mondiale.
Ma nei confronti di quella che per tutti oggi è la Grande guerra (e già col nome si indica lo sconvolgimento epocale che ha prodotto in tutti gli aspetti della vita) è difficile parlare di celebrazione. Piuttosto ci sembra giusto parlare di un’occasione in cui è possibile fare memoria insieme, riflettere sul passato comune.
Ora, fare memoria significa certo dare spazio alla conoscenza storica, localmente significa anche ricostruire qual è stato il coinvolgimento del territorio in quella tragedia collettiva: Albignasego, infatti, come tutto il territorio veneto, è stato profondamente segnato dalla guerra, con un alto numero di soldati non più tornati dal fronte e con un grande coinvolgimento della popolazione, soprattutto dopo che Padova è diventata la ‘capitale al fronte’.
Fare memoria, però, significa anche qualcos’altro. Credo che per una comunità fare memoria significhi prima di tutto riguardarsi, fermarsi per capire ciò che eravamo, cosa sentivano e in che cosa credevano le generazioni che hanno dovuto far fronte al conflitto e magari misurare anche quanta strada è stata fatta nel secolo che è alle spalle.
In questo senso il primo dato su cui soffermarsi è inevitabilmente una memoria dolorosa:
coi suoi milioni di morti, con l’immane distruzione prodotta, con gli stessi trattati siglati alla fine dello scontro, la Grande guerra è stata una grande tragedia collettiva scatenatasi nel cuore stesso della civiltà, tra i paesi ritenuti più avanzati del mondo.
Ecco allora che per noi italiani, e per tutti gli europei, ciò che ci separa in primis dalla situazione di allora è esattamente questo: mentre un secolo fa la guerra era ancora un evento potenzialmente nell’orizzonte delle decisioni autonome di uno stato, oggi per una parte del mondo (la nostra parte del mondo) questo non è più. Le due guerre mondiali hanno cioè prodotto il <miracolo storico> -se così vogliamo dire- di portare l’esigenza di una pace durevole tra gli stati (che era allora l’aspirazione di piccole minoranze e di qualche filosofo) a diventare un’esigenza condivisa e indiscussa per la grande maggioranza dei popoli europei. E oggi noi italiani siamo saldamente ancorati all’articolo 11 della Costituzione repubblicana, che sancisce il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
Non bisogna peraltro dimenticare che, un secolo fa, per tutti (anche per chi voleva la pace) la guerra combattuta per la libertà e l’indipendenza nazionale rappresentava una forma legittima di conflitto. Il nostro paese, da questo punto di vista, aveva in qualche modo un credito ancora aperto nei confronti della storia, non essendo ancora concluso il suo processo di unificazione: al momento dello scoppio del conflitto, infatti, Trento e Trieste erano –per usare una parola del tempo- ancora irredente; ed è certo ancora possibile sotto alcuni rispetti parlare della Grande guerra come di una sorta di quarta guerra d’indipendenza.
Se però come italiani vogliamo fare memoria proprio della nostra guerra, la cosiddetta guerra del ‘15-18, allora credo che dovremmo riflettere almeno su altri due aspetti cruciali.
-Il primo. Nei 10 mesi che intercorsero tra lo scoppio della guerra nell’estate del ’14 e l’ingresso in guerra dell’Italia, il nostro paese è stato lacerato dalle note discussioni tra interventisti e neutralisti, ed ha poi visto farsi strada la decisione dell’intervento in un modo non trasparente e soprattutto senza che il Parlamento fosse protagonista effettivo della decisione.
Venivano così al pettine alcuni dei nodi strutturali con cui si confrontava il nostro paese nel contesto europeo: la sua unificazione recente e parziale; la fragilità delle sue istituzioni; l’arretratezza che generava una sorta di complesso d’inferiorità rispetto agli altri stati. Oltre a ciò anche la separatezza, direi lo scollamento che c’era tra le classi dirigenti del paese e la gran parte della popolazione, composta soprattutto da ceti rurali poveri, scarsamente alfabetizzati, lasciati estranei alla vita politica. Questo scollamento tra classe dirigente e popolo era ed è ancora uno dei nostri problemi strutturali: quello che tante volte è stato chiamato divario tra paese legale e paese reale, o anche separatezza tra istituzioni e vita concreta della popolazione.
Ecco perché, a mio avviso, non si può liquidare la memoria della Grande guerra solo come un evento tragico del passato con cui ribadire il nostro attuale senso della pace. Ciò che accadde in quei mesi, in quegli anni ha ancora qualcosa da dirci: parla di noi e dei molti fallimenti di tentativi riformatori fatti in seguito (fino ad oggi) per la mancanza di un vero coinvolgimento della popolazione nella vita dello Stato.
-Il secondo. Credo sia necessario riflettere anche su quel dramma collettivo che fu la nostra condotta militare fino a Caporetto, quando l’incomprensione della realtà e l’ottusità di una parte del gruppo dirigente del paese ha gettato nella terribile mischia un esercito in buona parte non preparato allo scontro.
Anche qui possiamo misurare la distanza che ci separa da allora, oggi che le nostre forze armate sono dipendenti non da una ristretta cerchia politico-militare, ma dalle istituzioni di una repubblica democratica.
Dobbiamo però ricordare anche che dopo Caporetto, nel momento del temuto sfacelo dell’esercito e dello stato -quando nessuna delle potenze alleate avrebbe mai scommesso sulla nostra capacità di ribaltare la situazione- gli italiani furono protagonisti di uno sforzo eccezionale di ripresa. E furono soprattutto i combattenti al fronte e la popolazione civile del cosiddetto fronte interno a sostenere lo sforzo della ripresa: lo fecero in nome dell’unità nazionale, del dovere di fronte alle istituzioni, del riscatto di un intero popolo; e –bisogna aggiungere- con una unità tra esercito e popolazione paragonabile a quella che si era vista durante le guerre per l’indipendenza, lungo il Risorgimento, quando volontari, esercito sabaudo, mobilitazione cittadina spontanea avevano prodotto uno sforzo comune.
Questo è un aspetto che ci unisce a quella tragedia storica: la certezza che quel sacrificio collettivo, sostenuto in primis dai soldati al fronte e dalla mobilitazione civile, ha evitato il crollo dello stato, l’umiliazione nazionale, la dispersione dei risultati del Risorgimento.
Se la Grande guerra ha significato soprattutto morte e distruzione, noi non possiamo essere qui a celebrare un evento di morte. Piuttosto siamo qui a onorare/celebrare i morti, gli uomini e le donne che hanno mantenuto viva una speranza per il nostro paese anche di fronte a enormi sofferenze e talora alla perdita di tutto.
È facendo memoria di questo che possiamo forse acquisire oggi una più alta coscienza di pace; coscienza di pace che è sempre –come afferma il filosofo inglese Whitehead- l’intelligenza della tragedia accompagnata dalla speranza.
Liviana Gazzetta
Sopra: Liviana Gazzetta
Sotto: un momento dell'intervista